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Poetessa cronofaga

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e_macadandi Romano A. Fiocchi

Eliza Macadan, Anestesia delle nevi, La Vita Felice, 2015.

Cronofaga / la chiesa / batte campane / di eternità. Ho trovato bellissimo questo “cronofaga”. Mi ha catturato come una trappola poetica. Ma di altre trappole poetiche sono disseminate le raccolte di Eliza Macadan, in particolare questa sua “Anestesia delle nevi”, uscita nel marzo scorso per la casa editrice milanese La Vita Felice. Trappole come il verso ricorrente a Nord della parola, pronto a catturarci con tanto di assonanza già nella prima lirica: con la frusta nell’aria / spavento / l’aurora / e vado a dormire / a Nord della parola. Il lettore attento (e quello di poesie lo è quasi sempre) lo vede tornare nella lirica a pagina trentadue: geliamo / verso il mattino / a Nord della parola. Poi a pagina quarantuno, spezzato in un enjambement: andrò a Nord / della parola / nella siberia sintattica / il gelo muto. Di nuovo a pagina cinquantaquattro: la mia glaciazione / comincia / a Nord della parola. Infine a pagina sessantuno: i motori del mondo / sono muti / a Nord della parola. Cosa c’è, dunque, a Nord della parola?

La cosa più inusuale è che a generare queste suggestioni verbali sia una poetessa romena bilingue che ha adottato l’italiano come strumento poetico per eccellenza. Sono dunque in lingua originale – e non tradotte – queste sessantadue brevi liriche, ciascuna composta da un minimo di cinque versi a un massimo di ventidue. Il linguaggio è scarno, essenziale anche graficamente: nessuna punteggiatura, rarissime le parole con iniziali maiuscole (Nord, Terra, Natale, Montblanc, Dio), nessun titolo: è sempre il primo verso a dettare l’argomento.

Ma chi è l’artefice di questa scarnificazione poetica? Una premessa storica. Nel 1989 la Romania fu attraversata da una rivoluzione che rovesciò la dittatura comunista di Ceausescu e culminò con la sua fucilazione. Qualcuno tra i meno giovani ricorderà ancora i servizi dei telegiornali con quell’inconsueto sventolio di bandiere bucate nel mezzo. I Romeni, pur di voltare pagina, avevano ritagliato e fatto sparire lo stemma comunista persino dalle loro bandiere. Finiva così un regime che aveva per decenni impoverito il Paese e creato un clima di terrore attraverso la sua polizia segreta, la Securitate. Da questa situazione sociale è uscita una generazione di letterati condizionata, per forza di cose, dal peso della miseria e dell’assenza totale di libertà. Letterati che hanno saputo dare voce al dolore di un popolo in cerca di riscatto. Basta un nome, un grande nome:  Herta Müller, premio Nobel nel 2009, trentaseienne all’epoca della caduta di Ceausescu e per anni bersaglio di una vera e propria persecuzione da parte del regime per via della sua attività letteraria.

Eliza Macadan appartiene alla generazione immediatamente successiva, quasi fosse una sorella minore della Müller. Se Herta Müller, scrittrice di lingua tedesca, è originaria del Banato tedesco, all’estremo Ovest della Romania, Eliza Macadan, poetessa di lingua romena prima e italiana poi, proviene dalla zona Moldava, verso il confine Est. Quando la dittatura di Ceausescu viene rovesciata, la Macadan ha appena ventidue anni. Ne ha respirato l’atmosfera opprimente durante l’adolescenza e la giovinezza ma in un certo senso ha potuto completare la propria formazione all’ombra della nuova libertà. Non a caso è stata corrispondente in Italia per alcuni giornali romeni, da cui il suo bilinguismo. Così come nella Müller (e mi riferisco a testi in realtà molto poetici come “Il re s’inchina e uccide” e “Il fiore rosso e il bastone”), è il bilinguismo ad alimentare il suo gusto per la parola in quanto significato e significante, suono, sensazione tattile e visiva, possibilità altra di esprimersi. Quasi il cambiamento delle regole del gioco linguistico mostri nuove verità.

La narrazione poetica di Eliza Macadan procede per immagini lapidarie, per illuminazioni improvvise che durano il tempo di una parola letta. Il respiro è dato soltanto dal verso in sé, spesso composto da due, tre elementi, talvolta da un solo vocabolo che assume un peso straordinario: mi manca la felicità / impietrita / sul viso degli zingari, scrive in una precedente raccolta, “Paradiso riassunto”. Un respiro che ricorda, per certi ritmi, l’ermetismo di alcuni nostri poeti del Novecento.

È una visione sofferta, quella di Eliza Macadan, che oscilla tra il dolore dell’esperienza interiore – appunto tutta ermetica – e la denuncia di un malessere sociale, a volte reale a volte metaforico: dalla povertà della zingara che indovina un amore legalizzato, al passante che mostra le sue zanne di fame, al bambino che piange davanti alla vetrina di dolci, al vecchio che mendica un soldo per un aspirina, ai morti che si contano al tiggì della notte, sino al tema della guerra. O meglio, delle guerre: case folli / di secolo caduto in ginocchio / recinti verdi / sparsi per strada / uomini partiti / nella prima guerra / e morti nella seconda / donne cieche / di tanta attesa / i loro amanti bambini / stanno nei cimiteri / del cielo. Ecco allora il leitmotiv della Storia, dell’Europa in quanto terra patria (la Macadan non nomina mai la Romania), dei sogni di libertà: usciamo dalla storia / quando tocchiamo la libertà (…) questa Terra è più fango / portiamo dallo psichiatra / l’Europa stuprata / mitologicamente.

E poi c’è la scrittura, il poeta con la sua funzione taumaturgica che ormai basta solo a se stesso: se non scrivo / il pianeta implode (…) scrivo racconti / su valuta forte (…) scrivo / per chiedere / perdono / produco artigianalmente / lacrime / ho venduto tutte le mie penne / e tiro fuori dalla matita / parole secche.

Le parole di Eliza Macadan si nutrono di tempo, ne fagocitano il più possibile per restare lì, testimoni di un viaggio verso la fine del mondo. Non per nulla viaggiare verso la fine del mondo è una prerogativa della poesia.

Poetessa cronofaga è un articlo pubblicato su Nazione Indiana.


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